Giornata della memoria – Parlando con Liana Millu

Liana Millu è stata una mia cara amica. Negli ultimi anni della sua vita, fino a poco prima di morire, avevamo consacrato l’abitudine di incontrarci ogni quindici giorni, più o meno, e parlare dei nostri affanni, prima di tutto, e poi di come girava il mondo, di politica, di Genova, di libri e di poesia.
Insomma di tutto il parlabile, seduti su due comode poltrone eleganti e di giusta misura, spesso nel calar della luce del tramonto, che quando giungeva il momento veniva sorretta dallo splendore caldo di una lampada posta alle spalle di Liana.


Liana Millu era pessimista, come tanti vecchi saggi. Troppi rischi di involuzione distruttiva, nei singoli e nella collettività, troppo disprezzo per la natura, troppa arroganza e prepotenza, troppo compiacimento della forza. Troppi e troppo grandi segni di oblio di quello che era stato e che continuava ad essere: i massacri, le guerre, le persecuzioni razziali ed etniche, la schiavitù della fame e della miseria, le feroci dittature, e poi il più grande degli abissi, l’olocausto.
Liana Millu era stata catturata dai nazisti verso la fine del 1944, mentre a Venezia, partigiana, onorava i suoi imperativi di liberazione. Partigiana e ebrea era stata immediatamente condotta a Birkenau, lager femminile collegato ad Auschwitz, delirio di violenza e di umiliazione prima di divenire fumo. Dopo mesi di internamento e di atroci sofferenze venne liberata, mezza viva e mezza morta, ma ancora tenacemente attaccata a quel radicale di vita che l’avrebbe portata fino a noi e a novanta anni. Scrisse due libri bellissimi sulla totalità di questa esperienza: Il fumo di Birkenau e I ponti di Schwerin, racconti, filtrati da dolore e libertà, dell’intensità frantumante dell’internamento e dell’ebbrezza e della fatica del ritorno. Un monumento della memoria, uno scandaglio delle profondità dell’umano, una preghiera laica per la vita.
Poche settimane prima di morire e prima di dirmi per l’ultima volta arrivederci, mi raccontò questo episodio, di cui nei due libri non aveva parlato: “ Quando la mattina all’alba ci prelevavano dalle baracche e ci conducevano, inquadrate e umiliate, al campo di lavoro, luogo di conferma che per quel giorno non saresti passata fra i corpi indegni di sopravvivere, ci facevano passare accanto ad una grande radura, recintata e presidiata da cani neri e uomini armati. In questo grande spazio, ornato qua e là da qualche ciuffo d’erba, erano trattenute alcune migliaia di persone, molte donne e molti bambini, che, dando segni di residua vitalità possibile, si assiepavano per scaldarsi, mandavano in giro un parlottare fitto e fiero, facevano giocare i bambini. Portavano vestiti colorati e fantasiosi, i loro vestiti. Si, perché gli zingari non erano riusciti a svestirli e a rivestirli con la divisa del lager, il marchio dei carcerieri e della sottomissione.
Una mattina trovammo il campo vuoto. Stracci sparsi dappertutto, frammenti colorati, cappelli e veli, capelli e poi sangue a coprire le zolle e l’erba calpestata e schiacciata.
Nella notte gli zingari erano stati eliminati tutti. Ma avevano combattuto con tutti i mezzi che la pietà di Dio aveva loro lasciato”. Queste le parole di Liana Millu. Pensavamo di registrare questo ricordo. Non ci fu tempo.
La sua voce e il suo sorriso mi accompagnano sempre.
Questa la mia giornata della memoria.
(Angelo Guarnieri)