Salute mentale – Bisogna parlare

E’ una questione troppo grande, quella della salute mentale, perché venga affidata soltanto ai poteri e ai saperi, costituiti per promuoverla e valutarla, prenderla in cura o in custodia, parlarne, studiarla. E’ questione vitale, come la salute corporea, come l’aria che respiriamo, come l’acqua, come il pane.
Insomma una questione di vita e di morte. Anche di morte. Perché la salute mentale è anche il suo lato oscuro, la malattia mentale, il dolore dell’anima, il male di vivere, l’incapacità di stare con gli altri, lo svuotamento energetico, l’impossibilità di essere sé stessi. Insomma la tragedia che è anche la vita e la dimensione tragica che ha l’esistenza, e tutto questo riguarda tutti, è la condizione umana. “Siamo tutti coinvolti”, come diceva il grande poeta e cantante genovese.


E allora bisogna che di tutto questo si parli: che gli esperti della psiche ne parlino, che i giornalisti ne parlino, che i filosofi ne parlino, che i politici ne parlino, che i cittadini tutti ne parlino. Bisogna che ci sia informazione sui fatti della salute mentale, che ci sia scambio, curiosità, comunicazione. Che ci siano luoghi dove se ne possa parlare e dove le parole sulla salute e sulla sofferenza possano diventare azioni, pratiche di aiuto e di cura.
Anche delle cose che fanno clamore si deve parlare, ma non per alimentare scandalismo, paure e morbosità, ma per cercare di capire fin dove si può, ricostruire storie, tacere se non si può dire e accettare il silenzio per pensare, interrogarsi.
Tre recenti eventi di cronaca, tre suicidi avvenuti a Genova, hanno in qualche modo rilanciato il problema dell’informazione nel campo della salute mentale. Una informazione che ha mostrato partecipazione e sensibilità, ma nell’insieme del racconto e nel rapporto con gli esperti si sono ripresentati i dubbi legati all’uso di un formulario tecnico che oggettivizza l’altro, rende sterile lo spazio dell’agire, lascia sconosciuta la persona, con il suo dramma estremo, con la responsabilità del suo atto, e con lo sconforto arrecato ai suoi cari.
Quando Basaglia ha voluto chiudere i manicomi, battendosi perché si creasse la rete dei servizi per la salute mentale, ha infranto il paradigma dell’incurabilità, dell’inguaribilità e della pericolosità della malattia mentale. E ha posto le basi perché si instaurassero i luoghi dell’accoglienza, della cura e del prendersi cura, dell’accompagnamento e della prossimità verso le persone portatrici di dolore mentale, anche il più grave. Vi fu all’inizio una grande effervescenza scientifica, culturale, comunicativa e partecipativa attorno a questa impresa autenticamente rivoluzionaria. E molti nemici, e molti conflitti. Ora l’effervescenza si è attenuata e i nemici sono più subdoli.
Il passaggio che stavamo attraversando era troppo importante perche tacessimo sulle nostre convinzioni. Abbiamo avuto fortuna. Abbiamo incontrato giornalisti che cercavano di capire e che ci hanno dato una mano. Che riportavano alla fine, come sempre fanno – e l’ho imparato a mie spese, quello che dicevamo.
Parlare ci sembrava necessario per realizzare i processi di liberazione e di cura e l’opera di grande prossimità con la malattia mentale, spesso accompagnata dalla più buia miseria, che Basaglia, “il grande soccorritore” come lo ha chiamato Alda Merini, ci aveva insegnato.
Sono passati trenta anni dalla sua morte e tanta acqua sotto i ponti. Ma dove sono oggi i “grandi soccorritori”?
(Angelo Guarnieri)