Informazione. Aria di censura in USA e l’Italia si adegua

Se è vero, come sembra ormai confermato, che nel bene e più spesso nel male qui seguiamo quanto succede in America, si preparano tempi grami per la libertà di informazione. Accantonate le tradizioni di una press investigativa che fu capace di deporre il presidente Nixon col Watergate, gli Stati Uniti hanno impresso una svolta di 180 gradi al modo di intendere il ruolo dei media. Ne fanno fede alcune sentenze a loro modo esemplari.


Corruzione a Rhode Island. Il giornalista tv Jim Taricani manda in onda un filmato dell’Fbi dove si vede l’assistente del sindaco di Providence mentre riceve una mazzetta. Tutto vero, ma poiché si trattava di atti secretati, il giudice vuol sapere il nome di chi gli ha passato quelle immagini. Il giornalista si appella al rispetto dell’anonimato delle fonti, ma viene obiettato che non si tratta di un diritto in assoluto. Di qui la condanna a sei mesi, da scontare agli arresti domiciliari, solo perché Taricani ha subito un trapianto di cuore e il carcere avrebbe potuto essergli fatale.
Stessa sorte per Judith Milier del New York Times e Matthew Cooper di Time. Sono stati dichiarati entrambi colpevoli e rischiano 18 mesi di prigione per aver rivelato (cosa proibita dalla legge USA) il nome di un agente della Cia: Valerie Plame, moglie dell’ambasciatore Joseph Wilson, che nel 2002 era stato mandato da Bush in Nigeria per indagare sul presunto acquisto di uranio arricchito da parte di Saddam. Anche in questo caso i giornalisti potrebbero salvarsi solo rivelando la fonte, che invece non intendono tradire. Chi parla di minaccia ai fondamenti della libera espressione ricorda che i due cronisti d’assalto del Watergate mai rivelarono quale gola profonda rivelò loro gli imbrogli di Nixon. Il messaggio dell’era Bush è chiaro: tappare la bocca a chi potrebbe scoprire cose imbarazzanti.
Nella bufera è finito anche l’inviato Edward Lee Pits “colpevole” di avere imbeccato il caporale che pose alcune domande “difficili” a Rumsfeld durante la sua visita in Kuwait alle truppe in partenza per l’Iraq. Il botta e risposta tra il soldato e il segretario alla Difesa sul numero insufficiente di carri armati, fece il giro del mondo, soprattutto perché il problema esiste e costa non poche vite. Ma il giornalista viene posto sotto accusa come suggeritore.
Tanto per stare al passo, in Italia un ramo del Parlamento ha già approvato la legge che sottopone a censura e misure di guerra anche i resoconti sulle cosiddette missioni di pace. Manca poco ormai per militarizzare l’informazione dall’Iraq. Ma stampa e tv, con rare eccezioni, tacciono, come se la cosa riguardasse chissà chi.
(Camillo Arcuri)