Minoranze. Il linguaggio dei gesti sul bus numero 5

Da Ponente al centro cittadino su un autobus di linea. E’ il primo pomeriggio di un giorno di festa, il vento spazzola chiome e cappotti, l’aria natalizia spinge tutti verso il centro.


Salgo a Di Negro e, come sempre, cerco uno spazio vitale. Il “5” è pieno, segno che l’AMT sta continuando ad operare una linea “dura”: meno bus più auto, più auto meno posteggi, meno posteggi, più multe: un’aria irrespirabile.
Chi non ha, o non vuole usare l’auto, è qui, stretto. Dopo una rapida occhiata, m’accorgo d’essere una minoranza: i colori della pelle e le lingue che si mescolano sono davvero tante… l’italiano non è altro che un trait d’union. Eccomi immersa nel lato “oscuro” della città, fra quelli che s’incontrano alle prime ore del giorno, con le facce assonnate, ora con i bambini al seguito o con i loro fardelli di merce da vendere…
Lavoro a levante, lì si vedono altri visi, altre mani.
Ricordo che alla fine degli anni ottanta, alle sei del mattino, quell’autobus era pieno di donne: italiane a servizio nelle case della Genova bene.
Siamo quasi in Via Gramsci quando dietro di me una donna maghrebina inizia a parlare ad alta voce, il tono è concitato, le risponde un vecchio, alle sue spalle, un altro da lontano alza un braccio e dice qualcosa. Nessun altro capisce. Tutti gli sguardi sono rivolti a loro: solo dal tono della donna s’intuisce che non stanno chiacchierando. Che tipo d’insulto si stanno scambiando? Perché hanno iniziato quella lite? Chi ha ragione e chi torto? E chi lo sa!? Resta il gesto dell’ombrello che la signora rivolge all’anziano al capolinea di Caricamento: l’unico “verbo” che non ha bisogno di traduzione.
(Tania Del Sordo)