Crisi di governo. Quella Costituzione troppo trasparente

L’andamento della “possibile” crisi di governo, innestata dal ritiro delle delegazioni di UDC e Nuovo PSI dal gabinetto Berlusconi, indica come ci si trovi al centro di una fase di vera e propria eclissi dell’istituzione parlamentare. La prassi fin qui seguita dal Presidente del Consiglio appare oltrepassare, di fatto, la Costituzione formale e la risposta fin qui avanzata dalla Presidenza della Repubblica, sede garante del rispetto della prassi costituzionale, appare debole ed incerta.


Negli anni’70, durante la fase di più piena attuazione del dettato costituzionale, si parlava di centralità del Parlamento. Poi Craxi, per primo, cominciò a parlare di “grande riforma”: il risultato di quell’operazione è sotto gli occhi di tutti. Si è ampiamente delegittimata la Costituzione, che metteva il Parlamento al centro del sistema.
La democrazia –ricordiamolo– è procedura, è rispetto delle forme, e le forme vogliono che ci sia un passaggio parlamentare, preventivo all’eventuale accordo/riaccordo tra le forze politiche, per assicurare coralità e trasparenza nella delicata gestione di un fatto istituzionale rilevante, quale è una crisi di governo. Questo vuole la Costituzione.
Almeno la Costituzione formale, perché il problema è che oggi ci sono due Costituzioni.
C’è una Costituzione scritta, ormai svuotata e delegittimata (mentre ci sarebbe tanto bisogno di ridarle fiato), che prevede, come già ricordavo “ad abundantiam” un ruolo centrale del Parlamento.
Poi c’è la logica del maggioritario. Si è affermata, cioè, una diversa Costituzione, una Costituzione di fatto che, per esempio, esigerebbe di sciogliere le Camere se la maggioranza non riesce a governare. Il Presidente del Consiglio minaccia lo scioglimento, appellandosi appunto alla seconda Costituzione. Può dire di aver avuto una investitura diretta dal popolo.
Del resto anche il suo competitore diretto, il leader del centrosinistra, si trova su questa stessa linea. Anche l’opposizione conviene sul fatto che sarebbe sbagliato provvedere a un cambiamento di governo, o di presidente del Consiglio mantenendo la stessa maggioranza. Viceversa, in base alla Carta che è ancora lì, in vigore, non spetta al Presidente del Consiglio ma a quello della Repubblica la decisione di sciogliere le Camere.
Tutto quello che è successo negli ultimi trent’anni, il tentativo di cambiare la forma di governo con le bicamerali, ha prodotto una grossa incertezza nel diritto costituzionale.
La Costituzione formale è stata delegittimata, però c’è ancora, è pur sempre consegnata in un testo. Si è così creata una situazione pericolosa. Se guardiamo alle esperienze che abbiamo fatto, neanche troppo tempo fa, la prima spia di una minaccia autoritaria, è rappresentata dallo scarto che si crea tra il diritto ed il fatto, cioè tra le regole codificate scritte nei documenti costituzionali, e i comportamenti concreti. In Italia abbiamo vissuto una dittatura di vent’anni senza modificare lo Statuto Albertino, che era una vecchia carta liberale.
Ricapitolando: il decreto di scioglimento delle Camere spetta ancora, ed in ogni caso, al Presidente della Repubblica, che prima deve sentire i presidenti dei due rami del Parlamento, come impone l’articolo 88. Il ruolo del Presidente della Repubblica sta scritto nella Carta, lo scioglimento non può in nessun caso essere fatto contro la sua volontà.
I fatti di questi giorni dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, l’estrema pericolosità delle riforme costituzionali in atto. Con la riforma il Presidente del Consiglio diventa Premier e il pallino sta nelle sue mani. Pensate ad una ipotesi del genere in una fase come questa: dove la questione morale si è spostata da affare di tangenti (come nella cosiddetta Prima Repubblica) alla concezione “proprietaria” dell’uso delle risorse pubbliche e delle istituzioni. Il presidente del Consiglio, pienamente collocato in questa dimensione della questione morale, potrebbe decidere di sciogliere il Parlamento e per il Presidente della Repubblica sarebbe un atto dovuto recepire la richiesta.
La riforma costituzionale, in pratica, sta cercando di codificare quella che prima si definiva come “Seconda Costituzione”, ed è il frutto, velenoso, del processo di personalizzazione della politica e di centralità nell’uso (spregiudicato) dei mezzi di comunicazione di massa in funzione di promozione politica (ed insieme, economica). Il sistema politico italiano è cambiato, in peggio, senza che il Parlamento abbia votato le Riforme.
(Franco Astengo)