Immigrazione/1 – Non chiamateci pandillas. Basta etichette!

19 giugno, auditorium di San Salvatore: “Giovani, migranti, latinos. Oltre le bande per un percorso di riconoscimento e non violenza”. L’aria che si respira è di celebrazione e rappresentazione: già prima dell’inizio in un turbinio di flash volti ad immortalare le strette di mano e i tatuaggi dei protagonisti della giornata. Si celebra pubblicamente l’emersione dal silenzio e dall’illegalità nella realtà genovese delle cosiddette “bande”, e la pace siglata tra due di esse (Latin King e Netas), mentre il fine della rappresentazione è riconoscere l’esistenza di una nuova comunità in città, le organizzazioni giovanili di strada, come amano autodefinirsi in alternativa al termine banda o pandilla.


A parlare sul palco dell’auditorium, i rappresentanti internazionali, da New York a Barcellona, di queste realtà, che nuove non sono se non nella loro uscita dalla condizione di fantasmi sociali. Primo bersaglio è l’informazione, colpevole di aver generato il fe nomeno bande e aver demonizzato la loro funzione: “Se ogni organizzazione di cui alcuni membri commettono saltuariamente degli sbagli si chiamasse “pandilla”, tutta la polizia di New York sarebbe una pandilla”, afferma sorridendo King Mission, rappresentante dei Latin King di New York. Rifiutano l’etichetta di violenza e dichiarano gli ideali ed il valore delle “organizzazioni giovanili di strada” contro la marginalizzazione e per il riscatto sociale. La celebrazione poi continua e i riflettori passano alle articolazioni locali del fenomeno: sono 30-40 i giovani membri di “bande” che esistono a Genova presenti in sala, giovani, latinoamericani ma anche italiani, alcuni già con figli: parlano della musica rap e reggaeton come unica valvola di sfogo delle tensioni sociali, in assenza della famiglia impegnata altrove per lavoro. Le loro parole non sono sicure e gli sguardi sospettosi, l’arresto di uno dei leader dei Latin King pochi giorni prima dell’evento aleggia nella sala, anche nelle parole della madre, che nega ogni intento violento o illegale nell’operato dei giovani; il divieto di fotografare e riprendere i volti che per la prima volta escono allo scoperto viene più volte infranto, generando tensioni.
La celebrazione è siglata dalla Dichiarazione di Genova, una sorta di manifesto programmatico delle organizzazioni giovanili di strada che rifiuta la violenza ma anche la marginalizzazione. Numerosi gli interventi e le questioni poste dal pubblico: quale sia il progetto sotteso a questo percorso di emersione, quali modelli alternativi alla “banda” si possano offrire ai giovani, se il processo iniziato possa avere come effetto un incoraggiamento all’ingresso in esse, in assenza di alternative (culturali, sociali). Ma alla celebrazione non c’è spazio per la dialettica e le domande cadono nel vuoto spegnendosi tra gli applausi.
(Eleana Marullo)