Categoria: Arianna Musso

  • OLI 372: TEATROGIORNALE – La professoressa di matematica

    Da Repubblica.it – Ad Auschwitz saresti stata attenta

    La professoressa entra in classe. Nessuno se ne accorge. E’ una terza, trenta sedicenni in piena crisi ormonale in uno stanzone dalle pareti un tempo bianche, le loro voci rimbombano e si accavallano. Una ragazzina ride sguaiata, i suoi acuti sbattono contro i muri e ritornano frammentati, impastati con la voce da basso di un ragazzo grasso che, dieci banchi più in là, gioca con il telefonino, un compagno si lamenta. I due marocchini sono seduti sui banchi e parlano sottovoce ma fitti. Una sgualdrinella è sotto un banco e sorride, emula di qualche altra sgualdrina televisiva. Le finestre sono alte, un vetro è sostituito da un cartone. Le luci a neon. La puzza. Gli adolescenti si immergono in profumi dolciastri per nascondere la puzza. E mutande, ombelichi, omeri, sterni, polpacci, calcagni, nuche, cosce. La professoressa socchiude gli occhi e stringe il suo manganello immaginario. E’ un manganello speciale, dà scariche elettriche. I bidelli sono già in posizione agli angoli della classe, dalle finestrelle rialzate si scorgono solo le canne dei mitra. Basta un suo cenno per far rotolare a terra quei corpi schifosi. Un’ecatombe. No, meglio, lei deve alzare una mano e indicare la prima vittima, un colpo, uno solo, colpirà Giorgio, diciassette anni, ripetente, quello che gli ha dato della “vecchia rincoglionita” dopo un tre. Lo colpirà alla tempia destra e il proiettile uscirà da quella sinistra, lui strabuzzerà gli occhi e sputerà sangue sulla faccia butterata di pircing di Jennifer. Poi cadrà dal banco su cui è seduto e in classe regnerà finalmente il silenzio. Ventinove galletti smetteranno di parlare, la guarderanno finalmente, guarderanno lei, la professoressa di matematica. La riconosceranno.
    Lei farà un cenno, loro capiranno che devono alzarsi in piedi.
    Lei si metterà davanti alla cattedra e loro, all’unisono, urleranno: “Buongiorno Signora professoressa”. Lei farà segno che debbono sedersi. Loro si siederanno senza fare rumore con le sedie.
    Un cretino dal pizzo verde apre la finestra facendo tremare i vetri ancora attaccati, lancia uno zaino. Siamo al terzo piano. La professoressa spalanca gli occhi e urla: “Sparate!”. La classe smette di vociare, la guarda, la riconosce e scoppia a ridere.
    La professoressa socchiude gli occhi e stringe il suo manganello immaginario, quello che dà le scosse elettriche e inizia la sua danza: colpisce prima il ragazzetto dal pizzo verde che, avuta la scossa, stramazza al suolo con convulsioni e vomito, poi è il turno di quello grasso che gioca al cellulare, poi di quella che le corregge le equazioni alla lavagna.
    La professoressa si siede dietro la cattedra, posa il registro. Prende il pennarello e va alla lavagna. Disegni osceni, cuori, parole in libertà. Posa il pennarello, prende il cancellino, cancella la lavagna, riprende il pennarello, inizia a scrivere le sue equazioni alla lavagna. Mentre è di spalle sogna che un vetro salga, la divida da quelle bestie urlanti. E in quella gabbia di vetro si oda un FSHHH, del vapore bianco saturi l’aria. Suona la campanella. La professoressa di matematica va alla cattedra, prende il suo registro, mette in borsa il pennarello, il manganello immaginario ed esce dalla classe.
    (Arianna Musso – foto da internet)

  • OLI 371: TEATROGIORNALE – Per un sorso d’acqua

     Da ilcorriere.it: Sul pianeta dell’acqua in sette miliardi hanno sete

    In una cucina una ragazza vuole bere un bicchier d’acqua. E’ seduta a un tavolo, davanti a lei ci sono venti persone che la guardano.
    Lei li guarda, quando sono arrivati? Non importa, il bicchiere è suo, l’acqua pure.
    Alza il braccio per prendere il bicchiere e sposta il peso del corpo in avanti; i quaranta occhi la seguono, anche loro spostano il peso dei loro venti corpi in avanti.
    Lei si ferma, lascia il bicchiere d’acqua sul tavolo; le labbra dei quaranta occhi sono screpolate, le carni dei loro venti corpi asciutte.
    Lei si alza di scatto, prende il bicchiere, sale sulla sedia, si siede sul tavolo dando le spalle ai quaranta occhi. Lei porta il bicchiere alle labbra, decisa finalmente a bere. Quando l’acqua le bagna le labbra si accorge di avere le spalle scoperte: quaranta occhi assetati la guardano.
    Nuovamente si alza di scatto, posa il bicchiere sul tavolo, si siede sulla sedia. Guarda il bicchiere colmo d’acqua. Anche i quaranta occhi lo guardano.
    Lei si alza dalla sedia, con noncuranza si avvicina al mobile della cucina, tira fuori: dodici piatti bianchi, quindici bicchieri azzurri, otto tazze dai bordi dorati. Lei li mette gli uni sopra le altre a costruire un muro così che i quaranta occhi non possano vederla mentre beve il suo bicchiere d’acqua. Ma dal manico di una tazzina si intravede un occhio, tra un piatto e un bicchiere ci sono labbra.
    Allora lei si alza e apre dei cassetti e tira fuori tovaglie e asciugamani e amplia quel muro di stoviglie con un muro di biancheria. Ma loro potrebbero circumnavigare il tavolo.
    Allora lei dispone le sedie così che loro non possano arrivare al suo bicchiere d’acqua, ma una sedia si può scavalcare e allora lei sposta il forno, il frigo, la lavastoviglie a rafforzare quella diga anti assetato.
    Ma loro potrebbero ancora passare, uscire dalla finestra della cucina e rientrare da quella della sala e sorprenderla ancora una volta alle spalle.
    Bisogna chiudere le finestre, le porte e forse ancora non basterebbe.
    Il bicchiere d’acqua è dimenticato sul tavolo mentre lei cerca ancora di proteggersi da chi ha sete.
    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 370: TEATROGIORNALE – Il ritorno degli orchi

    Da corriere.it: Il bimbo morto per il cioccolatino avvelenato

    C’era una volta in una casetta tre fratelli: Ettore, Giovanni e Sebastiano.

    Un giorno Ettore trovò un cestino davanti a casa: dentro vi erano una scatola di cioccolatini, una bottiglia di vino e un mazzo di fiori arancioni. Ettore portò il cestino dentro casa. Dei cioccolatini sapeva cosa farne: nascondersi sotto il tavolo e mangiarseli. Ma la bottiglia di vino? Decise di lasciarla sopra il tavolo. I fiori? Bisognava regalarli a nonna Rina, detta Rana perché quando rideva faceva il verso della rana. Quindi uscì da sotto il tavolo, lasciando lì i cioccolatini, per portare i fiori arancioni alla nonna, dall’altra parte del parco.
     Nel frattempo Giovanni entrò in cucina, aveva fame, erano già le quattro e nessuno l’aveva chiamato per far merenda. Non trovando niente sul tavolo (solo una bottiglia per adulti) decise di guardare sotto il tavolo. E lì cosa trovò? I cioccolatini. Giovanni era un bambino buono e quindi andò a chiamare i suoi fratellini per dividere con loro il bottino.
    orco_logo300-3421.jpg (300×342)Sebastiano, il più piccolo dei tre, stava costruendo un aeroporto di Lego, aveva già costruito tre aerei ma voleva averne dieci. Quando arrivò Giovanni, Sebastiano, preso dal suo gioco, acchiappò una manciata di cioccolatini, tutti avvolti in una carta stagnola rossa, e se li mise vicino alla scatola dei Lego. Giovanni uscì di casa per andare a cercare Ettore.
     Nel frattempo Nonna Rana, appena annusò i fiori portati da Ettore, tirò un urlo e disse:
     – Questi fiori sono fiori di orco! Dove li hai presi?
     Ed Ettore raccontò che li aveva trovati davanti alla porta di casa assieme al cestino.
     – Presto
     Disse la nonna.
     – Dobbiamo andare a casa e buttare via tutto quello che c’era nel cestino, gli orchi odiano i bambini. Ettore e la nonna corsero a casa. Sul tavolo la nonna trovò la bottiglia di vino e subito la rovesciò nel lavandino. Appena il contenuto toccò l’acqua si alzò un fumo verde accompagnato da una piccola esplosione.
     – Orchi!
     Esclamò la nonna, sputando nel lavandino. Ettore invece cercò i cioccolatini sotto il tavolo e, non trovandoli, corse in sala. In mezzo alla pista degli aerei c’era Sebastiano, con la faccia riversa su un aereo e con un mucchio di stagnole rosse vicino.
     La nonna chiamò il 118. Si aprì la porta della cucina. Era Giovanni, aveva la scatola dei cioccolatini in mano e la faccia tutta verde. La nonna gli corse incontro.
     – Hai mangiato i cioccolatini?
     Gli chiese.
     – Si, ma solo uno. 
    Disse Giovanni e in quel mentre arrivò l’autoambulanza. NINOOONINOOONINOOOOONINOOOOOOooooninoooooooo
     A tutta velocità Nonna Rana e i suoi tre nipotini corsero verso l’ospedale. Arrivati, Giovanni e Sebastiano vennero portati via dai medici
     – Per poterli curare per bene.
     Disse la nonna mentre un poliziotto chiese ad Ettore dove avesse preso quei cioccolatini.
     – Eran davanti alla porta di casa, non so chi li ha messi, non volevo che Giovanni e Sebastiano stessero male.
     Il poliziotto gli mise una mano sulla spalla e gli disse:
     – Non è colpa tua Ettore, ma a volte gli orchi si travestono da uomini e donne normali, magari gentili. Non bisogna accettare da loro nulla, meno che mai i cioccolatini o le caramelle. Sono Orchi e gli orchi odiano i bambini. Gli orchi, le streghe, i lupi, pensiamo che non esistano e che abitino solo nelle fiabe, ma purtroppo non è così, essi vivono attorno a noi, a volte con noi.
     – Ma perché gli orchi odiano tanto Giovanni e Sebastiano?
     – Non lo so, piccolo, non lo so.
     E il poliziotto strinse a se Ettore, un bambino della stessa età di Sebastiano lo stava aspettando a casa.
    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 369 – TEATROGIORNALE – I confini di Schengen

    Da il Sole 24Ore Schengen, perchè a Berlino non piace il via libera a rumeni e bulgari

    Al confine tra la Germania e la Romania c’è un muro con un varco e una sbarra abbassata. Oltre vi è una fila che aspetta il gendarme addetto alla frontiera. Il cielo è plumbeo, non un posto dove sedersi. Dopo un paio d’ore la sbarra si alza: ogni cittadino rumeno che vuole entrare in Germania, e quindi in Europa, deve fornire generalità e documenti; infine i richiedenti visto vengono fatti accompagnare in una stanza scavata nel muro in attesa del 2014, quando Schengen verrà, forse, ratificato anche per loro.
    – Nome?
    Fa il gendarme alto, con i capelli biondi e i baffi.
    – Samuel Rosenstock.
    – In che campo agisce?
    – Per carità, sono contro l’azione,
    – Contro l’azione?
    – Certo e per la contraddizione continua.
    – Quindi afferma che è inoccupato.
    – In realtà anche per l’affermazione non sono né favorevole né contrario.
    – Esigo una motivazione sul perché vuole circolare liberamente in Europa.

    Il signor Rosenstock si avvicina al gendarme e gli sussurra all’orecchio:
     – Non do spiegazioni perché detesto il buon senso.
    Il gendarme, affatto stupito, pone qualche timbro sui fogli di Samuel Rosenstock, detto Tzara e lo fa entrare nella stanza ricavata dal muro. 
    – Nome? 
    Questo gendarme è pelato e con una pancia da bevitore di birra. 
    – George Palade. 
    – Professione? 
    – Ricercatore. 
    – E cosa vuole cercare qui da noi? 
    – I ribosomi. 
    – E che sono? Cellule criminali legate alla prostituzione? 
    – Beh, hanno a che fare con le cellule ma si dedicano alla biosintesi. 
    – Sintesi, in sintesi cosa sintetizza? 
    – Proteine. Anche lei le utilizza sa? 
    – Non dica fesserie, sono un pubblico ufficiale. 
    – Nel suo citoplasma, glielo assicuro. Altrimenti morirebbe. 
    – Ah… mi minaccia pure. Le faccio passare io la voglia di fare lo spiritoso. 
    Il gendarme prende il signor George Palade, nobel per la medicina, per la collottola e lo lancia dentro la stanza ricavata nel muro. 
    Si avvicina una donna dai capelli neri. 
    – Nome? 
    – Nadia Comaneci. 
    – Professione? 
    – Ginnasta olimpionica. 
    – Non può entrare. 
    – Perché? 
    – Il fratello di mio cugino si è sposato con una rumena e lo sanno tutti… La donna rimane dritta davanti al gendarme. 
    -Va bene, venga va, ha ancora da lavorare… 
    Il Gendarme fa entrare la campionessa olimpica nella stanza ricavata nel muro guardandole vistosamente il sedere e strizzando l’occhio al collega che esce dalla stanza. E’ il primo gendarme, quello alto con i baffi, che si avvicina alla sbarra per prendere le generalità di un altro migrante. 
    – Nome?
    Dice il gendarme, l’uomo che ha di fronte non risponde. 
    – Nome? 
    L’uomo ostenta indifferenza. 
    – Perché non mi vuole rispondere? 
    L’uomo osserva il gendarme. 
    – Perché non la conosco. 
    – Ma neanche io la conosco. Come faccio a conoscerla se non mi dice come si chiama.
    – E io come faccio a dirle come mi chiamo se non la conosco. E’ un buon principio non parlare con gli sconosciuti, si potrebbero fare dei brutti incontri. 
    – Condivido, meglio essere prudenti. A meno che non si possano avere valide credenziali. 
    L’uomo si illumina. 
    – Giustissimo, ma non basta un nome. 
    – Vero. Infatti chiediamo i documenti. 
    – I documenti documentano quello che la persona sostiene di essere, ma se la persona è insostenibile non c’è documento che tenga e bisogna andarsene, o perlomeno appoggiarla da qualche parte. Il gendarme è preoccupato. 
    – Appoggiarla dove? Il regolamento non lo prevede. 
    – Non lo so, ma se non riesco a sostenerla è meglio che la appoggi da qualche parte prima che mi caschi su un piede. 
    – Ha ragione, meglio essere prudenti. 
    – La prudenza non è mai troppa. E se è troppa basta levarla, ma non troppo, quanto basta. 
    – E poi dove la metto? 
    – Non lo so, ma scusi ci conosciamo? 
    – Io sono Hans Shodler e lei? 
    – Eugené Ionesco. Piacere. 
    – Il piacere è mio. 
    – Mi scusi, glielo rendo subito, l’ho preso senza accorgermene e se permette ora me ne vado.
     Ionesco saluta alzando il capello e se ne va.
    (Arianna Musso – foto da internet)
  • OLI 368: TEATROGIORNALE – Madre di famiglia

    Da la Repubblica Benedetto XVI non è più Papa

    Mia nonna è sempre stata una donna forte. Una di quelle donne che tengono unite la famiglia, che non sono mai stanche e allevano quattro figli, otto nipoti con un marito che non è capace a cuocere la pasta.
    Mia nonna è sempre stata dietro, ha lavorato tutta la vita in silenzio, fino ad oggi. Oggi la nonna non è entrata in cucina e non ha acceso i fornelli, non ha apparecchiato la tavola, non ha cucito il vestito che le avevo chiesto di accorciarmi. Quando alle due siamo arrivate, io, mia mamma, mia zia e mio cugino, l’abbiamo trovata seduta in poltrona che si leggeva un Harmony.
    – Ma nonna, che succede?
    Le chiediamo preoccupati. Lei alza gli occhi e dice:
    – Finisco il capitolo e arrivo, intanto andate di là a mettere su una pentola per l’acqua.
    E riprende a leggere. Siamo rimasti a guardarla. Cercavamo dei segni evidenti di demenza senile, di depressione grave o almeno un tremore. Niente. Siamo andati in cucina e abbiamo avvertito la zia Gilda, lo zio Carlo e gli altri nipoti. Nel giro di mezz’ora c’erano tutti.
    Chi entrava la studiava senza parlare e poi, arrivati in cucina, chiusa la porta, iniziava a esporre le più fantasiose congetture per finire con le litigate di sempre, quelle che durano da sessant’anni e che in realtà sono sempre un miscuglio di invidie tra fratelli e sensi di colpa.
    Finalmente alle tre meno un quarto arriva la nonna in cucina e ci accorgiamo che non abbiamo messo su nulla per il pranzo. La nonna apre la porta finestra del terrazzo. La luce del sole la incornicia: ha il solito vestito a quadratini marrone, il pulloverino abbottonato, le calze color carne e le scarpe col tacchetto a tre centimetri.
    – Cari
    Inizia e la sua voce è dolce come sempre.
    – Questo giorno mio è diverso dai precedenti: da oggi non sarò più vostra madre o nonna, per la verità non sarò più neanche la vedova Giannelli: fino alle otto di questa sera lo sarò ancora, poi non più. Sarò semplicemente una donna che inizia l’ultima tappa di questa meravigliosa avventura che è la vita. Sono stanca, anziana, non so ancora quanto mi resta da vivere e non ce la faccio più a portare ancora avanti questa famiglia. Vorrei potervi aiutare ancora, prepararvi il pranzo o rammendarvi i calzini, è che non ce la faccio più. Sono sicura che chiunque di voi potrà prendere il mio posto, se lo desidera, e continuare a tenere unita questa famiglia. Mi dimetto da madre di famiglia. Vi benedico con tutto il cuore.
    Dal cielo cala una imbracatura, la nonna se la infila, solo allora capimmo che quel fragore non era un rumore di traffico e di vento o di lavori stradali: era un elicottero.
    La nonna si alza in volo e, aprendo le braccia, ci saluta:
    – Grazie e buona giornata a tutti voi.
    Siamo restati così tutto il pomeriggio: gli zii a piangere in silenzio e noi nipoti a guardarli piangere. L’ombra è entrata nella sala. ‘E arrivata la sera. “Fino alle otto di sera”, ha detto la nonna. Sono le sette e mezza. Quando saranno le otto gli zii saranno ufficialmente orfani sia di padre che di madre. Noi nipoti saremmo senza più nonni. E potremmo rimanere orfani anche noi? Non per l’ineluttabile morte ma per una scelta autonoma di mia madre o di mio padre? Allora anche un figlio può dare le dimissioni? E un cugino? Uno zio? Un cognato? Le lacrime hanno iniziato a scendere e una fitta mi ha attraversato il petto. Mi sento sola come mai nella vita.
    Sono le otto. La sala è buia ma nessuno può più accendere la luce. Hanno sospeso la fornitura dell’Enel.
    (Arianna Musso – foto di Giovanna Profumo)

  • OLI 367: TEATROGIORNALE – L’ultima corsa

    Immagine da internet

    Da BlizquotidianoCorreva nudo in autostrada

    Un ragazzo dalla pelle chiara, muscoloso anche se non grosso, corre nella notte. I piedi nudi si appoggiano ritmicamente sulla linea bianca tratteggiata sull’asfalto. Attorno guardrail, oltre vi sono campi piatti circondati di buio.
    Il ragazzo nudo corre sull’asfalto e non pensa a nulla. Un piede dopo l’altro. Quando i piedi sono entrambi sospesi in aria, a volte chiude gli occhi. Inspira. Sono brevi istanti di stupore in questa fuga silenziosa, inesorabile. Il pene sbatte tra le cosce; gli occhi sono rivolti verso il nero orizzonte. Nonostante il freddo il ragazzo inizia a sudare. Corre.
    Davanti a lui arriva una luce. Lui guarda la luce e continua a correre. Non aumenta il ritmo, non si ferma. Un piede dietro l’altro, una striscia bianca in mezzo all’autostrada. La luce è vicina, così vicina che non può non vederlo. Ispirando alza entrambi i piedi da terra, per un istante chiude gli occhi. Riappoggia il piede destro sull’asfalto che subito si risolleva: sbatte la testa contro il parabrezza che esplode.
    Il ragazzo nudo vola in alto e cade in un campo distante diversi metri. La macchina continua a correre tra un guard rail e l’altro fino a che il rumore della carrozzeria è sovrastato dalle urla sorprese di chi ha rischiato la vita.
    Oltre la strada, nel buio, un battito d’ali si specchia negli occhi chiari del corridore nudo e il suo cuore smette di pulsare.
    (Arianna Musso – immagine da internet)

  • OLI 366: TEATROGIORNALE – Espulsione tra fuoco e fiamme

    Da la RepubblicaRoma, 19enne si dà fuoco a Fiumicino
     
    Il poliziotto:

    -A ridosso dell’ingresso adibito al personale dell’aeroporto di Roma Fiumicino, terminale3, settore partenze, alle ore 10.35 del 15 febbraio 2013, Il signor X di anni 19, di nazionalità Ivoriana, veniva accompagnato in maniera coatta verso il desk doganale per favorire le incombenze di rimpatrio. Chiesogli dal funzionario doganale se avesse qualcosa da dichiarare egli ha aperto la borsa estraendone una tanica di litri tre contenente benzina. Dopo che il signor X ha rovesciato la quasi totalità del contenuto della già citata tanica di liquido infiammabile sopra il di lui corpo, io mi sono avvicinato al soggetto. Il signor X ha dato fuoco alla di lui giacca, avvampando quindi nel corpo tutto. Essendo io collegato al di lui corpo tramite il mio braccio destro ho iniziato anche io a bruciare. La signora F.D., prontamente intervenuta, ha spento le fiamme con un estintore dato in dotazione all’aeroporto.

     La funzionaria della dogana: 

    -Stamattina, come sempre, ero al mio posto nel gabbiotto. A un certo punto un odore di benzina, un fumo, un ché di pollo arrosto. Una gran luce e poi le urla. Non so neanche perché sono uscita e ho preso l’estintore. Ma così, d’istinto. Non so neanche come ho fatto. Poteva pensarci qualcun altro. Appena li ho visti ho fatto fuoco. Cioè, non è che ho fatto fuoco, ho usato l’estintore: prima sul poliziotto che sembrava ballasse, con tutto il braccio luminoso. Pensavo: colpisci le fiamme, colpisci le fiamme. Quello ballava e io ferma con le gambe aperte, ben piantata sui miei tacchi, fino a quando il braccio si è tutto coperto di una spessa schiuma bianca. Intorno a me ancora urla: – Spe-gni-lo! Spe-gni-lo! Spe-gni-lo! Allargai le gambe, mi piantai sui tacchi, tirai su entrambe le braccia, presi la mira e feci fuoco, cioè non è che feci fuoco veramente, ma non mi fermai finché non finii tutta la schiuma dell’estintore. Li ho salvati? Non lo sapevo, me l’anno detto dopo.

    Un passeggero: 

    -E alla fine ci ha fatto perdere l’aereo, a me e a mia moglie. Dovevamo andare a Londra da mia figlia e con tutto questo macello non sappiamo neanche se potremmo partire. E adesso chi la sente mia figlia? Una puzza poi. Certo mi spiace per questo qui -diciamo- abbronzato, ma che ci posso io, se non c’è lavoro neanche per i nostri figli, non è che possiamo farli entrare così. Non si può mica, c’è la crisi e noi dobbiamo pensare ai nostri problemi. Che poi adesso: chi glielo pagava l’aereo a ‘sto qui? Noi; mentre il viaggio per Londra me lo pago da me. E ora che si è tutto bruciato, poveretto, chi gli paga l’ospedale? Sempre noi. Mentre l’altro giorno ho fatto un esame e sai quanti euri gli ho dato di ticket? Che io gli direi: – Senti, ti vuoi dar fuoco? Ma datti fuoco a casa tua che se c’hai dei problemi non è mica colpa mia.

    L’incendiario: 

    Ho 18 anni, a quindici ho perso mia madre e mia sorella. Sono scappato per il deserto. Ho lavorato in Libia. ‘E scoppiata la guerra anche lì. Ho preso una barca. Nessuno sapeva guidarla. Sono arrivato in Italia. Ho iniziato a lavorare, avevo una casa, avevo il cellulare, dei vestiti puliti, magari avrei potuto essere felice. Mi hanno arrestato. Mi volevano far tornare indietro. Ma indietro dove? Nella notte. E allora nella luce canto i versi di Dadié:

    “Sono l’uomo color della notte 

    Foglia al vento, vado in balia dei sogni. 

    Sono l’albero che germoglia in primavera 

    E rugiada che canta nel cavo del baobab.” 

    (da foglie al vento di Bernard Dadié.)

    (Arianna Musso)

  • OLI 365: TEATROGIORNALE: Baby sciopero

    A partire dal 31 gennaio, OLINEWS pubblica i contributi di Arianna Musso che, ispirandosi ad una notizia, ne trarrà un testo letterario.
    da la Repubblica: Sale parto ferme (*)

    – Oggi devo nascere!
     Il bambino si sporge oltre le nuvole. Il musetto imbronciato, il pancione in avanti. La bis-bisnonna lo trattiene spaventata, è una donna giovane, morta di parto in un’isola della Sicilia diversi decenni prima. I capelli sono raccolti in una spessa treccia nera.
    -Te lo assicuro. Oggi è il grande giorno, l’epifania, oggi nasco io. Fammi volare, alla mamma sono già iniziate le doglie. Non la senti?
    La bis-bisnonna lo trattiene per il braccino, cerca con gli occhi qualcuno che la possa aiutare. Lassù, tra le nuvole si vedono solo uccelli pronti ad acchiappare il nascituro appena lei lo lascerà partire. Si prende coraggio ed esclama a voce talmente bassa e impastata da essere completamente sovrastata dalle urla concitate del piccolo:
    -Non si può fare. Quest’oggi non puoi nascere. Visto che il piccolo non l’ha sentita ripete con voce più forte, forse adesso troppo forte perché le esce quasi un ruggito.
    -Non si può. Quest’oggi non puoi nascere. Hanno altro da fare laggiù. Aspetta domani.
    -Ma io devo rivelarmi, devo andare! Insiste il pupo cercando di divincolarsi dalle mani forti che lo stringono, ma la bis-bisnonna continua:
    -C’è una gran confusione, non ci sono dottori, non ti possono aiutare, credimi, è una cosa delicata questa, lasciami dire, non è che arrivi tu e patapim! Senti ammia, hanno indetto sciopero, sciopero nazionale di tutti i dottori e di tutte le ostetriche.
    -Ma nonna, io nasco da solo, la so la strada, non ti preoccupare.
    -Tutti nasciamo soli e tutti moriamo soli. E’ che, per amore di nonna, aspetta domani…
    Il piccolo spalanca gli occhi grigi e si lascia cadere giù dalla nuvola a peso morto, un gabbiano si butta in picchiata e lo prende al volo. Il bambino lo abbraccia e con la piccola manina saluta la bis-bisnonna che lancia un grido muto. La donna si è sporta dalla nuvola di scatto, quasi a volerlo seguire e lo continua a guardare, la treccia tra le labbra in un moto di angoscia. Quanto dovrà aspettare ora? Chi dovrà attendere? Forse nessuno, forse andrà tutto bene. Ma chi sono queste donne e questi uomini che la fanno stare così in pena? Hanno costruito gli ospedali: bravi. Hanno debellato le setticemia, le gestosi quasi, hanno inventato l’episiotomia, hanno perfezionato il cesareo e tutte le altre cuciture. Bravi. Ma perché proprio oggi, che deve nascere il suo bis-bisnipotino, ci deve essere sciopero nazionale? E tutti i discorsi che sente con il suo orecchio fine di trapassata: contenziosi, colpa medica, legali, responsabilità oggettiva, strutture sanitarie, diritti… tutto le sembra così distante a lei che è morta nel 1924.
    (Arianna Musso – foto da internet)
    (*)http://www.repubblica.it/salute/2013/02/11/news/sciopero_sale_parto-52438815/?ref=HREC2-7

  • OLI 364: TEATROGIORNALE – AAA giovani italiani cedesi

    A partire dal 31 gennaio 2013 OLINEWS pubblica i contributi di Arianna Musso che, ispirandosi ad una notizia, ne trarrà un testo letterario. 
    Dal corriere.it: Ricerca in Italia? Meglio fare il lampredotto.

    Firenze, pensilina dell’autobus.
    Una giovane donna bionda alza il cappuccio della figlia più grande. La bambina sta giocando con i piedi della sorellina che escono dal marsupio. La piccola avrà sei mesi, occhi azzurri, cappellino rosa.
    – Look, bird! – Esclama la donna indicando un merlo che vola.
    – Dove?- La grande smette di torturare il piede della sorellina e alza il naso.
    – Dove si dice where. Anche se non abitiamo più a Zurigo può sempre capitare che incontri dei bambini non italiani, magari dei turisti, devi saper parlare con loro – La mamma le parla sorridendo, con un dito tra le mani della piccola.
    – Dei bambini come Anne?- La bimba continua a tirare il piedino della sorellina.
    – Come Anne, come Can, come Didier.
    – Ma Can era turco.
    – Ma parlavamo in inglese, ti ricordi ?
    – Torniamo a Zurigo ?
    – No amore, non torniamo più a Zurigo perché la mamma ha cambiato lavoro: non faccio più la ricercatrice in medicina molecolare ma vendo i panini col lampredotto più buoni di Firenze.-
    – Insieme a nonna Gilda!- grida la bambina e saltella felice del tono entusiasta della sua mamma.
    Arriva l’autobus, la mamma la prende per mano e la tira per farla salire; la bimba sfila inavvertitamente la scarpina di lana rosa della sorella che cade sul marciapiede.
    (Arianna Musso)

    Segnalazione: venerdì 8 febbraio ore 17,30 circolo Zenzero, via G. Torti 35 Genova, presentazione del numero 4 della rivista “Quaderni di San Precario”

  • OLI 363: TEATROGIORNALE – Diario di una mamma in terra straniera

    A partire da questa settimana OLINEWS pubblicherà i contributi di Arianna Musso che, ispirandosi ad una notizia, ne trarrà un testo letterario. 
    Da la Repubblica Scuola dal 21 gennaio iscrizioni on line 
    Giorno 1
    Arrivo a casa e c’è un foglio sulla porta. Naturalmente non capisco quello che vi è scritto. E un cartello blu, tipo quello che sia attaccano in albergo alle maniglie. Sarà pubblicità. Lo stacco e lo metto nel sacchetto della spazzatura che giace da due giorni davanti alla porta di casa.
    Giorno 2
    La sorpresa di questa mattina è il contatore del gas sigillato. C’è un cartello blu scritto in questa lingua ostrogota… Provo a suonare alla vicina. Mi apre, nonostante la sua buona volontà non riusciamo a comunicare. Vado in posta. La settimana scorsa gli impiegati della posta erano riusciti a capire il perché mi avessero tagliato la luce. Magari anche questa volta sono pochi euro di arretrato. Arretrati perché quando mi mandano i solleciti io non riesco a leggerli. Chissà perché non vengono a prendere la spazzatura davanti a casa?
    Giorno 3
    Mi hanno detto che, per l’anno prossimo, devo iscrivere il bambino alla scuola elementare. Devo farlo on-line, col computer. Ci ho provato ma non ci riesco. La maestra mi ha detto che non ne sa niente. La mia amica mi ha detto che magari finisce che ci denunciano. Ma in che paese mi ha portato mio marito? Non vengono a prendere la spazzatura davanti alla porta di casa, non fanno andare i bambini a scuola, parlano solo la loro lingua e guai a provare a parlarne un’altra, che ne so: francese, inglese. Qualunque cosa facciano o dicano sembra sempre che cantino, questi italiani.

    P.S. Sembra che debbano cambiare il contatore del gas perché è vecchio, sembra perché è difficile parlare di bollette solo a gesti.
    (Arianna Musso – immagine di Guido Rosato)