Welby/1 – Un giudice-dimezzato non può decidere

Prigioniero del suo corpo, tenuto in vita da un ventilatore polmonare, Piergiorgio Welby chiedeva che venisse interrotta la respirazione automatica, dopo una sedazione che gli evitasse un’ultima, atroce sofferenza: quella di morire soffocato. In un mondo civile, in cui le scoperte tecnologiche fossero accompagnate dal maturare della coscienza sociale, una simile domanda sarebbe stata rivolta da Welby a chi lo aveva in cura. Nel nostro mondo è stato costretto a rivolgerla al giudice. Il medico e la struttura che lo tenevano in vita ritenevano, infatti, che sì, si poteva sedarlo e poi “staccare la spina”, ma una volta che, sedato, non fosse più stato in grado di decidere consapevolmente, quella spina era loro dovere riattaccarla.


Il Tribunale di Roma il 15 dicembre ha risposto a Welby, riconoscendo il suo diritto a decidere se accettava o meno la cura (nel suo caso rappresentata esclusivamente dalla respirazione automatica). Nel provvedimento si ricorda che l’art. 32 della Costituzione dice che siamo padroni del nostro corpo, con il solo limite rappresentato dal bene altrui. Questo dice la Costituzione e lo dice anche il codice di deontologia medica, che “prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti”.
Pur con questa premessa, il Tribunale non ha accolto la richiesta di Welby. Ha infatti ritenuto che il diritto del malato (questo particolare diritto, fatto valere da Welby) richiama concetti “che sono indeterminati e appartengono a un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento del giudice”, in quanto entrano in gioco interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni e le concezioni “etiche, religiose e professionali del medico”.
La decisione del Tribunale è stata impugnata il 19 dicembre dalla Procura. Il PM condivide l’affermazione del diritto di Welby (e di ogni persona) di decidere in ordine alla terapia. Ma afferma anche che, una volta riconosciuto, tale diritto può e deve ottenere la tutela dal giudice, senza che occorra un intervento legislativo. Ancora il PM sottolinea che tocca alla giurisprudenza l’applicazione concreta del diritto, “soprattutto con riguardo alla protezione di beni soggetti a cambiamenti dipendenti da fattori esterni” per la capacità della giurisprudenza di adattare al caso concreto i principi costituzionali.
Il Tribunale di Roma non dovrà decidere sul reclamo della Procura: il 20 dicembre un medico si è assunto la responsabilità di rendere concreto il diritto di Welby ad una morte dignitosa, consapevolmente accettata.
La battaglia civile di Welby, svolta davvero fino all’estremo, ci lascia anche questa eredità importante, quella di richiamare i giudici ad essere “il luogo istituzionale dove le nuove domande di diritti trovano immediate risposte sulla base dei principi già esistenti nel sistema giuridico” (Stefano Rodotà, Repubblica, 18 dicembre).
Un compito che deriva dal dettato Costituzionale. Ma che è difficilmente conciliabile con la figura di giudice-funzionario delineata dalla riforma Castelli, riforma che è già in buona parte entrata in vigore, nonostante il mutamento della maggioranza di governo.
(Anna Ivaldi, magistrato)