Immigrati/2 – La burocrazia e la vita

La signora con cui parlo lavora in una azienda navalmeccanica, assunta a tempo pieno e indeterminato, ma nonostante la solidità della sua condizione lavorativa combatte anche lei con la straziante burocrazia dei permessi di soggiorno. Il suo scadeva a marzo 2008, e ad otto mesi di distanza non le hanno ancora dato il nuovo documento. Nel frattempo ha avuto un bambino, ma non può richiederne l’inserimento sul permesso in via di rinnovo. Dovrà invece attendere che il permesso le arrivi, incompleto, e riportarlo poi in Questura per una successiva modifica. Si possono immaginare i tempi. Nel frattempo impossibile andare a trovare la nonna in Marocco: la signora è anziana, vedova, non poter vedere il nipotino lontano è un tormento.


E’ incredibile la quantità di vessazioni e sofferenze quotidiane imposte agli immigrati per inerzia o calcolo attraverso la banale arma della inefficienza e della burocrazia. A questo stillicidio la donna con cui parlo oppone la resistenza tenace della combattente già sperimentata sul campo delle difficoltà. In Marocco un diploma di segretaria commerciale e due anni di giurisprudenza, poi un lavoro in una azienda francese che viene perduto per il fallimento della ditta. Per sfuggire ad una prospettiva di disoccupazione a 29 anni parte da sola per la Spagna, dove resta solo otto mesi: il solo lavoro disponibile è quello di assistenza, in nero, con pochissimi soldi. Un tentativo in Francia, a Nizza, non è migliore: 400 euro al mese per un lavoro di assistenza a tempo pieno. Poi una amica le suggerisce di raggiungerla a Genova. I primi due anni, storia comune, li trascorre senza permesso di soggiorno, poi afferra l’occasione di una sanatoria. Nel periodo più “buio”, quello p assato da irregolare, lavora ad ore, in nero, nelle case. Poi col permesso arriva il lavoro in qualche ristorante, o in cooperative di pulizia. La prima volta che si è trovata una scopa in mano, mi dice, le è venuto male. La sua qualifica, le sue aspettative, erano altre. Ma poi, no, ha cambiato atteggiamento. Quello che importava era lavorare, essere autonoma, mandare soldi a casa. Solo non sopporta il lavoro di assistenza nel cerchio chiuso di una casa privata: il lavoro per lei deve essere comunicazione col mondo.
Ora questo lavoro va bene, ma il posto all’asilo comunale non c’è, quello privato costa caro, come fare? A tratti arriva lo scoraggiamento, e la tentazione, contro cui combatte, di rinunciare al lavoro per badare al bambino, fidando sul lavoro del marito.
Qui a Genova sta bene, dice che assomiglia alla sua città, Casablanca. Non tornerà in Marocco. Osserva che qui c’è più libertà e rispetto per le donne. Gli amici che lei e suo marito, anche lui cittadino marocchino, hanno qui a Genova sono soprattutto italiani. Osserva anche: noi non abbiamo bisogno di badanti, intorno ci sono sempre tante persone. Anche troppe! Semmai il problema, in Marocco, è riuscire a stare un po’ soli.
(Paola Pierantoni)