Amianto – Come rischiare la vita e perdere la dignità

In città li hanno visti un po’ tutti. Per più di una settimana un corteo di due o trecento persone ha fatto tappa – sostando, occupando, inviando delegazioni – nei luoghi canonici della protesta di un tempo: il comune, la regione, la provincia, la prefettura.
Sono “quelli dell’amianto”. Dopo centinaia, migliaia di morti per asbestosi, tumore al polmone, tumore alla laringe, mesotelioma pleurico ed al peritoneo, dopo una infinità di lotte, di inchieste, di azioni legali condotte da comitati di familiari delle vittime, ammalati e medici che hanno permesso di tracciare una mappa dei luoghi italiani dell’orrore (Genova, Casale, Monfalcone e tanti altri), nel corso degli anni Settanta è cominciata, con la diagnosi e la pubblica conoscenza del mesotelioma da amianto, la lotta per la messa al bando dell’amianto dai luoghi di lavoro e ovunque veniva utilizzato. Una lotta difficile perché chiedeva alla società, oltre farsi carico delle tragiche conseguenze di una infinità di lavorazioni, di impegnarsi in una costosa azione di bonifica delle strutture dove questo era stato utilizzato fino ad allora.


Vent’anni di scontri tra lavoratori da una parte e, dall’altra, aziende ostili a collaborare, che negavano le informazioni necessarie o fornivano perizie addomesticate fino all’irrisione. Punto d’arrivo, nel 1992, la legge 257/92 che metteva termine alle lavorazioni con amianto come materia prima. Una legge complessa che oltre a imporre un rinnovamento delle condizioni di lavoro riconosceva un premio ai lavoratori esposti per almeno 10 anni – sino al 1992 – alle conseguenze dell’amianto. Sulla base di una laboriosa contabilità della morte per amianto venne concordata una stima dell’attesa di morte, pudicamente indicata come bonus, un premio dovuto per aver lavorato in condizioni pericolose: un anno di contributi ogni due dei dieci che avevi passato in compagnia dell’amianto. Dieci anni di esposizione, a volte in più fabbriche o in diversi reparti della stessa fabbrica, in lavorazioni diverse, con esposizione diversa. Per fruire del bonus il lavoratore doveva produr re un curriculum, avvalorato dall’azienda o dalle aziende di cui era stato dipendente, che poi era presentato all’ente pensionistico che, dopo averne accettata la regolarità, ammetteva il lavoratore all’anticipo di pensione. A questo punto il lavoratore firmava le sue dimissioni dall’azienda – era questo l’unico documento sotto la sua diretta responsabilità – e diventava un pensionato.
Tutto semplice? No. A partire da ottobre 2008 i quotidiani genovesi hanno raccontato storie imbarazzanti: aziende che hanno avvalorato curriculum col solo scopo di togliersi dai piedi un po’ di operai (“ma in questo modo si sono aperte le fabbriche a giovani in cerca di lavoro” osserva un dirigente Fiom con l’aria di chi sa come va il mondo); sindacalisti e sindacati che hanno incrementato la loro influenza “dando l’amianto” a chi magari non aveva tutte le carte in regola; lavoratori che, per essere ammessi al bonus, hanno pagato (corrotto), impiegati dei Patronati o funzionari Inail.
Il seguito delle indagini dirà chi e in nome di cosa ha mortificato ed esposto al ludibrio una intera generazione di operai della città.
(Manlio Calegari)