Rigoberta Menchù al Modena. La piccola donna maya che ha sconfitto la guerra

Il Teatro Modena è gremito, alcuni abiti coloratissimi, su volti che tradiscono l’origine, ci ricordano all’ingresso che non di uno spettacolo si tratta, ma d’un colloquio a più voci e che tutti siamo lì per vederla, per ascoltare questa piccola donna così importante per il suo paese, per noi.


Accompagnata da Gianni Minà, da tempo impegnato a diffondere una conoscenza dell’America latina (su questo argomento dirige anche la rivista Latinoamerica) priva dei tratti folklorici e attenta alle responsabilità d’un Occidente che, come ricorda il giornalista, continua a ritenersi di fatto portatore dell’unico e solo “modus vivendi”, la tragica storia di Rigoberta e del suo popolo si è dipanata nei giorni degli orrori scoperti in Iraq (ma che dire di Guantanamo, delle mille prigioni, di cui solo i resoconti di Amnesty ci danno notizia?).
E dalle labbra della Signora, ferita negli affetti, costretta a scappare dal proprio paese, viene una straordinaria lezione di civiltà, d’orgoglio, di senso della giustizia: non si possono, non si devono dimenticare i genocidi, le torture; ma da sole, le scuse dei responsabili non bastano. Ci vuole una presa di posizione più radicale, come quella di definire, per legge, i desaparecidos “assenti per deportazione forzata”: per Rigoberta, un piccolo segno necessario per far progredire una civiltà, un atto indispensabile per andare avanti, accettando (e superando) il tempo bloccato della tortura, dell’assassinio di Stato.
Ultimo del ‘900, il genocidio del popolo guatemalteco è l’unico per il quale è stata riconosciuta ufficialmente una responsabilità diretta degli Stati Uniti. Oggi, nelle fosse comuni, ognuno cerca le tracce d’un parente. Si scava, scoprendo anche altri orrori (qualcuno era ancora vivo, è stato sepolto vivo, ha lottato per sopravvivere).
Gli orrori raccontati da chi c’era, da chi ha visto un fratello ancora adolescente torturato e poi bruciato vivo insieme ad altri di fronte ad una popolazione inerme, danno ancor più valore al coraggio di questa donna maya che è riuscita a trasformare una debolezza in una forza, a lottare con le armi della scrittura e della semplicità del “fare”, del fare per il bene comune. Grazie alla sua voce, alla storia raccontata nel libro Mi chiamo Rigoberta Menchù, il mondo ha aperto gli occhi sul Guatemala, gli aguzzini si sono sentiti osservati e con questa lente d’ingrandimento puntata contro non è stato più possibile per loro continuare il massacro.
Ma da Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace, ambasciatrice dell’ONU arrivano anche altre lezioni: la memoria della civiltà Maya, i suoi riti, l’unione strettissima fra terra ed uomo (ricorda, per esempio, che nei luoghi delle morti non crescono alberi, i fiumi hanno deviato il loro corso). Questo indissolubile legame, allora, ci rende figli d’una Natura che contiene in sé le radici dell’equilibrio, dell’armonia, un’armonia fatta della compresenza degli opposti. Letto da questo angolo visuale, l’uomo cessa d’essere l’unico motore del Mondo, ed il rispetto per la Terra diventa elemento imprescindibile anche del rispetto nei confronti dell’altro.
Rigoberta ci chiede di non abbassare lo sguardo, d’essere vigili, di pretendere l’esercizio della giustizia, di agire, concretamente, perché sta qui il segreto della gioia: allora, qualche miracolo accade. Oggi, la piccola signora sorridente lavora nell’edificio che un tempo ospitava il Ministero della Difesa. Da quella postazione, si preoccupa della costruzione di strade e scuole: un gran bel contrappasso.
(Tania del Sordo)