Scuola – Educazione musicale

Ho ricevuto un piccolo regalo di Natale: assistere a La Vedova Allegra al Carlo Felice. Uno degli insegnanti era ammalato ed è saltato fuori un biglietto gratuito. A caval donato non si guarda in bocca, dice l’adagio. Ed anche se era la “pomeridiana” con le scolaresche, il canonico Fuori Abbonamento Giovani, anche se c’era la nevicata, sono andato. E ho fatto bene! C’erano tantissimi ragazzini della scuola media e forse anche delle quinte elementari. Insieme a loro il pubblico era composto più che altro da anziani e da amanti dell’operetta.
Credevo che i ragazzini, tra la neve, i piumini e quant’altro, avrebbe scatenato un putiferio per sedersi. Invece solo un fisiologico ritardo di dieci minuti perché tutti fossero al loro posto.


La musica e il canto ne La Vedova Allegra, si sa, sono relativi, contano il brio, le arie famose, l’allegria dei balli che si susseguono ad ogni atto dell’opera di Franz Lehàr. E ovviamente le allusioni che animano i dialoghi dei protagonisti, l’ironia, il gioco tra i cantanti.
Tutte cifre stilistiche pensavo che avrebbero disorientato dei giovanissimi. Donne Donne eterni dei, mi pareva, a dire il vero, un refrain incomprensibile per degli undicenni.
Invece il composito gruppetto seduto compostamente due file avanti alla mia, commentava saputello le schermaglie amorose degli adulti che vedeva rappresentate e rideva divertito ripetendo con prontezza le battute spiritose, sogghignando agli intenzionali doppi sensi di un dialogato vivacissimo. Aiutato, nella comprensione, dalla lettura del testo sul display, ben occultato in alto sopra il sipario.
Vi erano poi caratterizzazioni della regia, di Federico Tiezzi, molto conosciuto regista teatrale d’avanguardia, che potevano distrarre l’attenzione dei giovani spettatori: per tutto il primo atto grafici di borsa campeggiano sullo sfondo della scena come torri multimediali per attualizzare i mali finanziari dello stato del Pontevedro, il principato immaginario che fa da sfondo alla vicenda.
Tutto, invece, è filato liscio con buona pace e tranquillità degli insegnanti, molto rassicuranti a dire il vero e rilassati come tutte le scolaresche che hanno applaudito a più non posso durante il gran finale dell’operetta.
Prima di uscire nell’innevata serata genovese, dal guardaroba ho ascoltato dei commenti che lodavano gli insegnanti che avevano preparato i loro alunni. Probabilmente le maschere e il personale si rallegravano dello scampato pericolo, del bailamme che le piccole pesti avrebbero potuto provocare.
Se tanto mi da tanto ho pensato lo stesso succede negli altri teatri e con le altre scuole d’Italia. Piccoli spettatori crescono grazie ai loro insegnanti che li educano ad apprezzare la bella musica e lo spettacolo dal vivo in genere, e grazie ai teatri che sanno coltivare un potenziale pubblico quando i ragazzini saranno diventati degli adulti. Ed è d’altronde anche la funzione pubblica di un teatro che si rispetti. Così come quella della scuola in cui gli insegnanti si sbattono “a babbo morto” e magari ci riescono a costruire degli italiani più colti di Corona o di quelli cresciuti con le musichette dei cellulari.
Forse il regalo di Natale che ho ricevuto non è stato poi così piccolo.
(Elio Rosati)