Ricordo di Liana Millu scrittrice appartata

Ha aspettato fino alle commemorazioni di quest’anno dell’Olocausto, lei che di giorni della memoria aveva intrecciato tutta la sua vita; e poi, dopo tanto resistere, se n’è andata. Liana Millu è morta lo scorso 6 febbraio, e i giornali l’hanno ricordata senza sprecare una parola di più. Dedicandole un po’ di righe doverose sulla cronaca, non le pagine, che avrebbe meritato, della cultura.


Non che a lei avrebbe importato – ne sono sicura, anche se di persona non l’ho mai conosciuta. L’ho vista una volta sola, durante una conferenza al Goethe Institute – una delle tante a cui lei ha partecipato, dopo il lager, in un sforzo incessante, caparbio e fiducioso, di testimonianza. L’ho vista e avrei voluto stringerle la mano e dirle: Finalmente la conosco, signora Millu! Sono nove mesi che leggo e rileggo e studio e scompongo i suoi libri per la mia tesi sulle donne nei lager, e non sa quanto apprezzi la sua opera… Soprattutto mi sono sempre chiesta come è riuscita a scrivere un libro come Il fumo di Birkenau, così a caldo, a pochi mesi dalla fine della deportazione, senza scivolare mai nella retorica, senza farsi schiacciare dall’orrore, senza indulgere in patetismi, senza sbagliare un aggettivo, senza perdere la fluidità dello stile. Come ha fatto insomma proprio lei a diventare una simile scrittrice dopo Auschwitz, dopo che anche la possibilità di fare poesia era ormai data per spacciata da fior di intellettuali. Per non dire del modo diretto, onesto con cui, nei suoi libri, ha trattato la questione della violenza, di quella – atroce – subita dentro i lager, ma anche di quella – terribile – agita, se non nei fatti nelle menti; di quella che veniva respirata, introiettata, esorcizzata anche dalle vittime e che rendeva ancora più nefande, se possibile, le colpe dei carcerieri. Lei ne ha parlato in prima persona: ha ricordato l’odio profondo, viscerale indotto dal lager, “l’impeto di Birkenau, quel cieco impeto selvaggio che cerca la gola e la stringe”. Ha guardato in faccia la violenza anche quando nasce da se stessi, la perdita del senso di pudore, la solitudine del ritorno, l’assoluta incapacità della società circostante di capire, la voglia di farla finita; e l’ha fatto, ripeto, con asciuttezza, autoironia, e un disincanto come solo i grandi artisti.
Il suo romanzo autobiografico, I ponti di Schwerin, è una ben strana educazione sentimentale: dal suo desiderio di indipendenza come giovane donna italiana degli anni’40 passa agli allucinati flash back della vita nel lager e poi rotola forsennatamente lungo tutto quel rocambolesco tragitto di ritorno dal lager all’Italia, passando per la Germania distrutta, la perdita della propria identità, l’impossibilità di un happy end. Lei forse meglio di chiunque altro ha spiegato cosa ha significato essere donna dentro il lager, nonché donna ex-deportata. Ma mi chiedo – e le chiedo: non ha giocato questo fattore, ancora una volta, a suo sfavore? Forse lei non ha avuto – in Italia, perché all’estero è diverso – la risonanza che meritava come scrittrice proprio perché catalogata, da subito, nel rassicurante parco protetto delle autrici dell’Olocausto al femminile? Ma forse lei avrebbe scrollato le spalle, lei che nella vita aveva superato ben altri ponti di quelli, fragili e oscillanti, costituiti dalle mie domande. Forse. Perché, quella volta, per chissà quale inconsulta forma di vergogna, non mi avvicinai. Ancora oggi lei è rimasta quella scrittrice misteriosa. Misteriosa anche per buona parte della nostra critica che non sembra averla mai del tutto capita.
(Carola Frediani)