Informazione. L’arma della pubblicità contro il direttore

Bravo chi ha capito i veri motivi delle recenti dimissioni di Furio Colombo dalla guida della nuova Unità, missione di rilancio del giornale compiuta – gliene va dato meritatamente atto – con la forza morale e l’autonomia intellettuale di un validissimo uomo di cultura. A più d’uno però proprio quei suoi tratti decisi, battaglieri, che tanto vigore hanno impresso alla seconda vita del giornale fondato da Gramsci, davano sui nervi: e tra i suoi detrattori figurava non solo la rozzezza di un premier arrivato a usare carte false pur di apparire vittima innocente della “rabbiosa stampa comunista” (falso smascherato e mai rettificato).


Anche da altre parti non era gradita la fierezza del personaggio che, proprio per il lungo passato americano, oggi, con la sua indignazione civile, testimoniava meglio di ogni altro l’indecenza di un regime di destra nostrano, dominato dagli interessi personali.
Come che sia Colombo se ne è andato, sostituito dal suo vice, Antonio Padellaro, fedele continuatore – è stato subito assicurato – della stessa identica linea. E allora perché il cambio della guardia? A prendere per buona un’ironica nota di Umberto Eco, la colpa sarebbe tutta della pubblicità: l’Unità non ne ha o quasi e si capisce perché. In un paese di opportunisti come il nostro, nessuna azienda passa un’inserzione a un giornale additato dal presidente del Consiglio non solo come nemico ma addirittura come persecutore. Strumentale o meno che sia, tale ipotesi dunque non è affatto trascurabile e riporta al mai affrontato nodo scorsoio che il potere politico-economico stringe alla gola della libertà d’informazione. Quando l’introito pubblicitario raggiunge, nel più sano dei bilanci, il 50 per cento dei ricavi di una testata, cioè quanto le vendite, è facile comprendere il pesante condizionamento che ne deriva.
Nelle redazioni del tempo passato, il confine netto, invalicabile, tra affari editoriali e informazione, era richiamato addirittura con l’invito a “non frequentare neppure al bar i pubblicitari”; tutto ciò poteva suonare come un’iperbole classista, mentre in realtà anticipava i rischi di una contaminazione destinata a dilagare in forme scandalose. Quei bistrattati venditori di spazi per la reclame, figure trattate con distacco, tenute ai margini, hanno avuto un’impensabile rivincita: oggi i ruoli si sono invertiti ed è con loro, in nome del marketing, che si decidono strategie e rotta, contenuti e immagine dei giornali, che si stabilisce di non fare più inchieste ma soffietti, e in certi casi sono loro a nominare o dimissionare direttori. Specie se non producono introiti.
(Camillo Arcuri)