Trasparenza – Il mostro di Ponte Caffaro andava fermato

Il mostro -come le cronache attuali si ostinano a chiamare impropriamente il maniaco che aggredisce le ragazzine in ascensore- non sempre è così inafferrabile, da dovergli mettere una taglia sulla testa, secondo i riti western che tanto piacciono alle leghe di casa nostra. Prendiamo il mostro di cemento, questo sì un vero mostro, di ponte Caffaro: certo che poteva essere fermato, ma nessuno ha mosso un dito. Si tratta, come i genovesi ora possono vedere, di un autosilo di quattro piani che aggredisce con la violenza di un tirapugni la scenografia ideata dal Barabino per costruire la circonvallazione a monte.


Giustamente l’architetto Marina Poletti scrive a Repubblica che i muraglioni della “città verticale” vanno tutelati in quanto “patrimonio di identità inscindibile della nostra storia urbanistica”. Le fa eco Michele Marchesiello definendo l’opera “un incubo degno di Metropolis”, che insieme all’autosilo dell’Acquasola, per non dire delle Mura di Malapaga, dei parchi di Nervi e degli altri spazi pubblici immolati al feticcio del garage privato, sono simboli di un nuovo sacco della città.
Alle critiche, non proprio immotivate, l’assessore Bruno Gabrielli replica che sia all’estero, sia in altre città italiane gli studiosi di urbanistica hanno scelto Genova come “modello di riferimento”, in positivo s’intende, mentre qui “prevale l’umor nero”. Ed evitando di entrare nel merito afferma infine che “c’è un tempo per prevenire e un tempo per recriminare”, ovvero fino al 1999 si poteva intervenire, dire che quella bruttura andava bocciata; ora, coi lavori in corso, si può solo piangere sul latte versato.
La domanda a questo punto riguarda chi aveva il compito, la responsabilità pubblica di evitare un simile affronto alla città; e la risposta non può che essere l’assessorato all’urbanistica, all’arredo urbano, la commissione edilizia o la soprintendenza ai beni storico-ambientali. Ammesso che agli occhi di quegli esperti una simile bruttura sia sembrata un capolavoro, a chi toccava protestare per tempo? Ai cittadini, ai consigli di quartiere, ai comitati spontanei, a condizione però di saperlo, di essere informati. Fare una simulazione al computer è prassi corrente per uno studio di progettazione; ma dubitiamo molto che sia stata seguita una procedura del genere per favorire una “scelta partecipata”, come si dice.
Già trent’anni fa, quando negli Stati Uniti vararono la “Freedom Information Act”, la legge sulla trasparenza, visto che pochi cittadini usavano il nuovo diritto di accesso all’informazione, l’Amministrazione stanziò molti milioni di dollari contro il rischio che la legge diventasse carta morta. Non sarà che da noi la trasparenza viene considerata un optional, fonte solo di fastidi?
(Camillo Arcuri)