Incontri – L’antisemitismo del quarto tipo

Duole – si fa per dire… – scriverlo, ma gli interventi di Pietro Citati lasciano spesso un inconfondibile retrogusto di cartolina illustrata, al punto che, letti, si sarebbe tentati di sondarne il rovescio, in cerca dell’immagine che invariabilmente li accompagna. Passi per Goethe e Kafka trasformati in portatori sani delle stimmate aneddotiche del genio; l’affare si complica quando, su Repubblica del 28 agosto, il nostro si lancia nella genealogia breve dell’antisemitismo. Qui il problema è tale, che dritto e rovescio si confondono in una logica implacabile e cristallina di cui il Citati surrettiziamente si aureola.


Dopo aver passato in rassegna l’antisemitismo nazista attualizzato dalle dichiarazioni inconsulte di quanti, come Umberto Bossi, pensano che i mali del mondo derivino dai “banchieri ebrei di New York”, quello cattolico alimentato per secoli dal micidiale fantasma del popolo “deicida” e quello borghese scatenatosi quando, all’apertura dei ghetti, gli ebrei naturalizzati divennero “avvocati, scienziati, scrittori spesso più intelligenti dei rivali cattolici”, Citati viene al dunque, cioè all’esistenza di un antisemitismo di sinistra. Egli stesso dichiara aver colto l’altermondializzata primizia di questo obbrobrio del quarto tipo sulle labbra di un’anonima manifestante non si sa “se casariniana o carusiana o agnolettiana” all’origine della modesta proposta geostrategica secondo cui “quelli che non ha ucciso Hitler, li ammazzeremo noi”. Pur prendendo per buona, nonché per diretta, la testimonianza (ma voi ve lo vedete l’accademico volteggiante a mo’ di neoplatonico spiritell o fra le orde vociferanti in tuta bianca o black?) è legittimo domandarsi se il problema possa essere liquidato con un tale sberleffo cartaceo. Perché, visto che l’antisemitismo esiste, beninteso, anche a sinistra, citarne le perle ignominiose non meglio identificate non vale certo a spiegarne la perversa natura.
Questo antisemitismo che alligna nella sinistra senza essere di sinistra (come immaginare una collusione fra un pensiero fondato sull’idea d’uguaglianza nella diversità e la discriminazione razziale?) può essere definito, per mezzo di un ossimoro, come un antisemitismo senza razza. Esso non consiste nel fare degli ebrei una categoria di uomini a parte, ma nel sostenere che una classe sociale d’individui (a scelta usurai, sfruttatori, capitalisti, banchieri) sarebbe composta sostanzialmente di ebrei.
È una tale semplificazione che può essere eventualmente imputata ad alcuni brani della Questione ebraica di Marx (che, diciamocelo, non rappresenta certo l’apice concettuale del pensatore di Treviri…) e non un impossibile cedimento all’egofobia razziale (che è invece ravvisabile, ma non si dice, in Sesso e carattere del filosofo ebreo in odore di santità mitteleuropea Otto Weininger).
Quanto poi a coloro che, nelle file della sinistra, identificano la matrice sionista dello stato d’Israele con l’imperialismo tout court, giova forse ricordare che questo stato lillipuziano è sorto lottando contro l’ingerenza di un protettorato britannico e che fra i primi a riconoscerlo vi fu, ebbene sì, proprio l’Unione Sovietica che si ergeva (con coerenza per lo meno problematica) a bastione antimperialista. Quanto al sionismo, si tratta di un movimento complesso, talvolta con venature dichiaratamente utopiche, che comprende persino frange ortodosse che si rifiutano tuttora, in nome di un messianismo oltranzista, di riconoscere lo stato ebraico (!).
(Achab)