Informazione/2 – L’editore democratico che rifiuta il dialogo

Gli scioperi dei giornalisti sempre più ravvicinati e prolungati, sono il segno di una durissima battaglia in corso. Gli innumerevoli comunicati che li accompagnano tuttavia poco informano. Se vuoi sapere qualcosa sulle ragioni che da circa due anni tengono i giornalisti della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana) sul piede di guerra contro la Fieg (Federazione italiana editori di giornali) è inutile leggere giornali e settimanali. Con l’unica eccezione, salvo errori, di Diario (10 novembre 2006) che con l’eloquente titolo di copertina “Chi se ne frega dei giornalisti” pubblica una inchiesta “vecchio stile” di Oreste Pivetta.


Un tempo, ricorda O. Pivetta, un giornale era fatto da piombo e telescriventi. “Un articolo lo si scriveva, un caposervizio lo correggeva, un tipografo lo componeva, un correttore lo correggeva, un compositore lo metteva in pagina, un correttore riscontrava le correzione avvenute. Non succede più”. Dal dispaccio di agenzia con il copia e incolla oggi si passa direttamente dal produttore al consumatore. Cosa ci vuole quindi per fare un giornale? Pochi giornalisti, molti precari e moltissimi collaboratori esterni. Ma non solo si tratta di evoluzione tecnologica. C’è anche il mercato. Non tanto quello dei lettori, quanto quello della pubblicità. Mercati strettamente correlati, ma a dettare le regole è ovviamente quello della pubblicità.
La stampa è da anni in crisi perché la principale quota del mercato pubblicitario è riservata alla Tv e quella che era riservata alla stampa tradizionale si assottiglia sempre di più con la comparsa della free press. La free press ha il vantaggio della notizia gratuita in poche righe e poco importa se sommersa da inserzioni pubblicitarie. Anche nella stampa tradizionale, osserva sempre O. Pivetta, il lavoro giornalistico è soffocato tra la crema antirughe e l’ultimo Rolex. Insomma, come scrive il Manifesto (8 giugno 2006), “non è più il giornale l’elemento chiave, ma il prodotto multimediale, …quindi sì il giornale, ma anche i supplementi, gli inserti, l’online, i gadget, i libri, il dvd e quant’altro”. La trasformazione è talmente profonda, che la Federazione degli editori “vuole trasformare la figura dei capiredattori … in quadri dirigenti con un mix di funzioni giornalistiche e amministrative/manageriali”. Una tendenza che in realtà è in atto da tempo, da quando qualche direttore di giornale – a scapito delle sue responsabilità di decidere che notizie pubblicare e con quale taglio – ha cominciato a sedere nei consigli di amministrazione per assicurare come meglio venderlo.
Editori e giornalisti sono consapevoli della posta in gioco. L’iniziativa dei tre giorni di sciopero ha registrato un’adesione del 90% dei giornalisti. I giornali del centrodestra sono stati, invece, regolarmente in edicola. Ma sarebbe semplicistico ridurre il tutto a una questione di schieramenti. Tanto è vero che il Consiglio di redazione di Repubblica ha dovuto denunciare il proprio Gruppo Editoriale – “che pretende di avere nella sua cultura la difesa dei diritti delle persone e della dignità del lavoro” – per non aver sentito l’urgenza di “sottolineare la propria distanza culturale dall’ala oltranzista e reazionaria della Fieg” (comunicato del 20 dicembre 2006).
(Oscar Itzcovich)