Rebus. Doloranti nella felicità ma felici nel dolore

Su “La Repubblica” del 22 novembre, giù, piccolo, in fondo alla prima pagina, un trafiletto dal titolo: “Non voglio stare male nemmeno un minuto”. Leggo. Il giornalista s’indigna, spiega, illustra quale valore abbia la sofferenza nella formazione dell’animo\a: si “temprano i caratteri”, ci si mette alla prova…


Come può una studentessa fuggire una semplice interrogazione, perché non preparata, quindi, preda di un successivo e certo attacco di dolore?
Peccato che, nella parte centrale del quotidiano, accanto alle conclusioni relative al “caso”, spicchi la notizia con foto, decalogo e quant’altro, sul convegno organizzato dalla rivista “Riza psicosomatica” che, guarda caso, ha come tema proprio la conquista della felicità.
Non che le due cose siano necessariamente in contrasto, anche se è difficile spiegare ai più come essere felici nel dolore o doloranti nella felicità, tant’è che, mi chiedo, ma se la studentessa legge il giornale, se, magari, guarda la De Filippi, se poi non somiglia ad una velina, se i suoi voti a scuola non sono eccezionali e se non potrà conquistarsi una serata da protagonista a caccia d’un fidanzato, allora, di grazia, su quali basi dovrà formare e temprare il carattere a caccia se non della felicità, almeno d’un sano equilibrio?
Mi domando, non è che conosciamo già molto bene la sofferenza perché ci scontriamo nella vita con la fatica necessaria per apprendere, comprendere, relazionarci? Non è che siamo sommersi da futili modelli di successo da non avere più nessun aggancio non dico con “fulgidi” esempi dell’umana natura, ma solo e semplicemente con il mondo delle favole, con gli eroi che, per vincere, dovevano superare ostacoli mettendosi alla prova?
Forse, più della lectio moralis, varrebbe la pena cominciare a raccontare d’un altro mondo, di altre vite possibili, per poter dare ai giovani almeno una scelta.
(Tania Del Sordo)