Convegno Call Center – Ma interessa il ruolo dell’Università?

Nel suo articolo “Call Center – mancavano al convegno professori e politici” (Newsletter OLI, n. 105 del 14/6), m.c. deplora le molte significative assenze ad un convegno sicuramente importante. Scrive, in particolare: «Qualche professore di diritto, e non solo del lavoro, ci sarebbe stato bene». L’osservazione critica coglie nel segno, ma merita qualche riflessione ulteriore, a partire dalla domanda: perché non c’erano?


Non è polemico rispondere che non c’erano perché non erano stati invitati: alla ricerca prima, alla discussione dei risultati poi. Per molti comprensibili e ragionevoli motivi , e in primo luogo perché – come si leggeva chiaramente nell’invito – l’obiettivo era quello di discutere la ricerca «con i soggetti istituzionali e con i rappresentanti delle parti sociali». Ma forse anche (ho fiducia nella serietà degli organizzatori) perché i risultati della ricerca non erano stati portati precedentemente a conoscenza degli studiosi.
La presenza “dei professori” può essere importante se può essere utile il loro apporto. Uno studioso o una studiosa (magari docente di diritto del lavoro nell’università locale) avrebbe potuto dire qualcosa di “utile” ove avesse avuto l’opportunità di conoscere (prima) metodi e risultati dell’indagine svolta.
E così arriviamo ad una questione cruciale: la difficoltà di “sfruttare” le competenze presenti nell’ambito accademico cittadino per finalità di interesse collettivo. Pur senza sottovalutare le molte collaborazioni proficue su specifici progetti (formativi, di ricerca e di sviluppo), molte sono a mio avviso le occasioni perdute per “utilizzare” le professionalità che l’accademia esprime (o che dovrebbe esprimere).
Questo spreco di opportunità è solo apparentemente casuale. In realtà esso è (anche) il portato di una mancanza di dialogo tra università e città/provincia/regione. La ridotta collaborazione nel settore della formazione e nella ricerca trova purtroppo riscontro nel ridotto dialogo sulle scelte e sui contenuti della formazione offerta dall’ateneo genovese. Le pur lodevoli iniziative volte al raccordo tra domande e offerte (entrambi volutamente declinate al plurale) di formazione universitaria (istituzione, obiettivi formativi, contenuti, pesi da assegnare alle diverse aree culturali, di corsi di laurea, triennali e magistrali, master, dottorati) sono diffuse in modo non omogeneo tra i diversi “luoghi” dell’università (facoltà, in primis), con esiti altrettanto disomogenei.
Nel momento in cui si torna (forse) a discutere dei percorsi formativi universitari, e si rimettono in discussione i modelli formativi scelti dai precedenti governi, sarebbe opportuno che anche le istituzioni locali (nel senso più ampio del termine) si presentassero come necessari interlocutori dell’ateneo e delle singole facoltà. La Confindustria ha fatto le sue proposte (vedi Documento 2006 sull’Università), non necessariamente tutte condivisibili (vedi http://www.lavoce.info/news/index.php?id=29): vorrei sentire, a livello locale, le voci di sindacati, enti locali, associazioni, etc., e sentirle “chiare e forti”. Perché credo che l’università debba formare professionalità per le imprese e per lo sviluppo della nostra economia, ma credo altresì che debba al contempo formare “cittadini” informati e consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, che siano in grado di sviluppare “utilità” per l’interesse collettivo, e non solo per l’interesse privato (personale o azi endale). E se queste affermazioni saranno giudicate retoriche o ingenue… tant pis!
(Gisella De Simone, docente di Diritto del lavoro, Facoltà di Economia, Università di Genova)