Razzismo – La differenza tra noi e loro

Prima pagina, 15 marzo. La persona che telefona è sincera, disarmante. Commenta l’atto di violenza avvenuto a Roma, il gruppo di una quindicina di ragazzi che ha sfasciato un call center bengalese, ferito quattro persone, urlato frasi razziste, senza dimenticare, alla fine, di rubare alcune centinaia di euro. Mentre l’ascoltatore parla prendo appunti, ne vale la pena. Dice testualmente: “Certo è un atto di violenza, ma bisogna vedere le motivazioni …”


Il giornalista della settimana, Daniele Protti dell’Europeo, lo interrompe “Se lei può dirci le motivazioni ci regala una informazione …”. L’ascoltatore prosegue “Viene chiamato razzismo, ma quei quindici ragazzi non è che fossero tutti matti. Ai nostri ragazzi per un lavoro ora offrono 500 euro, perché a un extracomunitario possono bastare, ma non può succedere a un nostro ragazzo che vuole farsi una famiglia, avere una casa dove abitare, comprare i giornali. Loro vivono sotto i portici, a loro possono bastare”. La voce è quella di una persona anziana, pacata, ragionevole, preoccupata per il disagio sociale dei “nostri ragazzi”. Razzismo che diventa senso comune, paesaggio quotidiano, vicino di casa che ci accompagna sempre più dappresso, giorno dopo giorno.
Il giornalista stigmatizza le affermazioni dell’ascoltatore. Obietta che la violenza non è una risposta sociale accettabile. Dice “Lei sta facendo un discorso pericoloso, e cioè che siccome c’è la crisi è comprensibile sprangare i neri”. Ma non coglie il punto, che è quello di attribuire agli “extracomunitari” uno status sub umano. Questo è il passaggio mentale che tutto giustifica: i “nostri ragazzi”, vogliono una famiglia, hanno bisogno di una casa, leggono perfino il giornale. A quegli altri basta un po’ di cibo per non crepare di fame, sotto i portici o sotto i ponti, come bestie.
(Paola Pierantoni)